Ripropongo un articolo già apparso nel blog a novembre 2014 corredandolo delle foto del viaggio in Perù.
Metà mattina dello scorso Novembre. Siamo dieci di noi alla periferia estrema e più degradata di Lima. Ci accompagna Padre M. Un comboniano sulla sessantina, portoghese. Ci è stato segnalato da un confratello dello stesso istituto nostro amico. M. armeggia bene con l’italiano. Sembra goderne. Un ‘combi’ (pulmino), come viene chiamato da queste parti, ci scarrozza sulla collina sulla quale ora stiamo passeggiando. Non tutti se la sono sentita di salire a bordo del ‘mezzo pubblico’. Dalle nostre parti sarebbe consentito dalla legge e dalle regole dello spazio salirci al massimo in nove, oltre all’autista. Eravamo in ventidue. Il missionario divertito di fronte alle nostre facce incredule ci racconta che è normale, anzi può arrivare a caricarne altri di passeggeri. Mentre cerchiamo di sdrammatizzare, e uno di noi tiene chiusa ‘a mano’ una porta laterale, che aveva l’intenzione ad ogni sbalzo di aprirsi, iniziamo ad aspirare l’odore dei poveri. Gli occhi europei e raffinati non possono far a meno di notare con disgusto la tappezzeria lercia e sbrindellata. Appena scesi zampettiamo sulla sabbia. Nella zona da esplorare si trova un ampio e modesto capannone. La parrocchia lo ha fatto costruire per stare tra i più poveri. Qui prima dell’invasiones, come in tutta la periferia, si adagiavano e allungavano solo colline di nuda sabbia. Lima è posizionata sull’oceano pacifico e le correnti fredde del mare impediscono alla pioggia di cadere. Così sull’intera linea di costa del Paese sino a 100 e più km all’interno regna il deserto. M. ci racconta come è spuntato il quartiere. E’ una storia che si è ripetuta per tutti gli altri pezzi che compongono l’impressionante periferia. Ad iniziare dalla fine degli anni ’80 sino ai primi degli anni ‘90 sciami di famiglie sono scappate dalla foresta e dalla sierra per difendersi dalla violenza del terrorismo e dei narcotrafficanti. Arrivando, e viste le condizioni climatiche che lo consentivano, occupavano abusivamente un pezzo di terra. Bastava piantare quattro pali e stendere nelle semplici stuoie orizzontalmente e sulla sommità. Per anni presidiano la postazione e attendono con pazienza che il governo si decida a concedere la proprietà. Nel frattempo ci si organizza per sopravvivere, non essendoci acqua, né un minimo di sistema fognario e luce. Lima è costantemente sotto una inesorabile cappa grigia di nuvole e di nebbia. La sola pioggia che si conosce è la garùa quando l’umidità supera il 100%, una pioggia finissima che rimane sospesa nell’aria. Immaginatevi l’odore. Tutto il preambolo l’ho fatto per arrivare qui, all’intenso e disgustoso odore. Nulla può essere lavato e purificato, la sabbia è pullulante di malattie. Mi prende una sensazione profonda di tristezza. La percezione olfattiva richiama qualcosa come l’immondizia bruciata, miscelata a liquami stagnanti. La fantasia e la memoria mi riportano a quando bambino in campagna arrivava la stagione di ammazzare il pollame. Tutte le donne si industriavano per spennare le povere bestie, alle quali era stato tirato il collo, sbollentandole nell’acqua di grandi pentoloni in alluminio, che borbottavano sul fuoco di legna. All’inizio l’odore era accettabile, poi si traduceva in un lezzo insopportabile. Parla uno che è nato in campagna. Precisamente, eravamo in mezzadria. Gli escrementi degli animali noi bambini li avevamo sotto gli occhi tutto il santo giorno. Anzi, ci giocavamo. Non entro nei particolari perché creerei solo ripugnanza. Ma per noi allora andava bene così. L’odore della periferia di Lima supera la mia soglia di tolleranza del repellente. Eppure ne ho ‘annusate’ altre di periferie come quelle di Nairobi, dove a detta dei missionari brulicano i peggiori slam della terra, o quelle di Deli in India. Mentre Padre M. ci espone la vita dei poveri, le contraddizioni della capitale, e i progetti della parrocchia l’ammorbante fetore mi ‘penetra nel cervello’. “Che schifo!”: commento tra me. Tuttavia ascolto con molta attenzione. Quasi a conclusione del suo intervento, Padre M. abbassa la voce e ci confida, aspirando come si fa in alta montagna l’aria pulita e ricca di ossigeno: “Senti! Che meraviglia! Questo per me è vita, è ossigeno puro…”. Gli occhi gli si inumidiscono, e continua: “Se non fosse per i poveri avrei già perso la mia vocazione. Qui è una gioia, una festa per me!”. Arrossisco di vergogna. Comprendo sino in fondo, e solo ora, che significa ‘avere l’odore delle pecore’. La motivazione più forte che mi muoveva per visitare un paese latinoamericano era il desiderio di conoscere la realtà sociale ed ecclesiale. Finalmente, e commosso a mia volta, ero servito. Incredibilmente bello verificare come l’amore trasfigura anche gli odori. M. aspirava il ‘profumo di Cristo’ (2 Cor 2,15), il buon aroma del vangelo, la fragranza della sua vocazione.
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