Mentre scrivo sono in una condizione di ansia per l’intervento chirurgico che debbo affrontare. Le idee si appannano. Decido di proseguire nello scrivere anche se l’emotività mi imbroglia un po’. Ma sono curioso di leggermi a distanza… e comunque qualcosa da comunicare ce l’ho, e fortemente in sintonia con quello che sto vivendo. Sento dentro un grande bisogno di parlare e quindi di essere ascoltato. È proprio l’ascolto il terreno nel quale vorrei entrare per compiere una breve esplorazione. In queste settimane ritengo di essermi affidato a medici veramente in gamba, ma con scarsa attitudine all’ascolto. Tutto negli ambulatori si svolge così in fretta. Uno talvolta ha l’impressione di essere un pezzo di ‘ernia lombare’, più che una persona… con bisogni e paure. Anch’io, non così raramente, vengo rimproverato d’andare un po’ in fretta, di aver tra le mani troppe cose. Mi sorprendo a provare piacere quando mi dicono queste cose. Eh si! Significa che sono attivo. A ben pensarci però questa cosa più che una virtù, è un peccato clericale ed infantile. Infatti fa a pugni con l’ascolto, che domanda pazienza e gratuità. È raro l’ascolto vero. Anche quando c’è, rischia di scadere in ascolto di cortesia, in gentilezza voluta e costruita, in ascolto tecnico… se il cliente è interessante e utile. Facendo mia una riflessione di altri e adattandola, direi che la Chiesa del pre-Concilio ha dato un primato, non solo teologico, ma anche operativo alla PAROLA, e quindi alla predicazione… alla bocca. Era una Chiesa innanzitutto ‘Magistra’, educatrice, maestra. Quindi una Chiesa che pretendeva l’ascolto, prima di offrirlo. Ricordate lo schema del catechismo di Pio X? La fede andava ‘ascoltata’, imparata, ripetuta a memoria. Con il Concilio Vaticano II (attenti bene che la nostra è una riflessione grezza e artigianale, fatta di intuizioni, più che di accorte e studiate valutazioni), la Chiesa ha sentito il bisogno di mutare atteggiamento nei confronti del mondo, della storia. Il documento Gaudium et Spes (La Chiesa nel mondo contemporaneo) la dice lunga. Si è dato così rilievo ed importanza strategica all’ascoltare un mondo in perenne cambiamento, pena il parlare a vanvera, ad interlocutori che non potevano più intendere i linguaggi di un tempo. Senza smettere di usare la bocca, si è passati ad esercitare l’orecchio, l’ascolto appunto. Si sono moltiplicate così le ricognizioni, le settimane di aggiornamento, i dibattiti, le indagini, le verifiche, il dialogo con tutte le componenti della società (con le Chiese sorelle e le grandi religioni: ecco l’impresa ecumenica). A 30 anni dal Vat. II alcuni stanno facendo notare che un ascolto di questo tipo è insufficiente. Perché alla fine si riduce ad un ascolto molto razionale, freddo, dove a contare sono le statistiche, i numeri, le tendenze. Dove c’è poco spazio per il mistero. Il volto della Chiesa appare deformato. Esiste una faccia con una bocca ed un enorme orecchio. Probabilmente a questo volto va aggiunto un secondo orecchio. L’orecchio dell’ascolto tipico del credente. Un ascolto accogliente, che dà spazio all’altro con tutta la sua diversità. Un ascolto che valorizza e apprezza, perché sa di trovarsi di fronte ad una creatura pensata ad immagine e somiglianza di Dio, una creatura che merita di essere ascoltata. Un ascolto che afferra il positivo dell’altro, i fremiti di bene dell’altro. Il bisogno di vita, di pienezza, il bisogno di Dio è piantato dentro e talvolta si esprime anche in modo paradossale, violento, distruttivo, drammatico, terribile. Solo chi ha la saggezza di ascoltare può individuarlo.
In tutte le faccende umane, anche nelle più sporche e cattive, si agita un pezzo di verità, un frammento di vita che andrebbe apprezzato. Tale ascolto, senza forse volerlo, sente i movimenti di un Dio che lavora nell’animo dei sui figli e che li provoca a cambiare, a crescere, a diventare liberi e costruttori di libertà. Un ascolto siffatto abilita a collaborare con il progetto vocazionale dell’altro, ad incoraggiarlo.
A questo punto dobbiamo ritornare a parlare, e il parlare può diventare ora più caldo, più umano. L’annuncio diventa più credibile. Infatti, sarà un parlare contaminato dall’ascolto, dove l’altro si sentirà capito e si aprirà con fiducia a sua volta all’ascolto. Il parlare sarà accompagnato dall’energia dei sentimenti e sarà maggiormente efficace. Non si partirà più solo dal dato teologico (la Chiesa dice che…), dalla causa di Dio vista in astratto, ma da una creatura alla quale Dio propone la sua causa. Il vissuto dell’altro richiamerà anche il proprio vissuto personale di uomo, di credente. Parlerò così non da tecnico, da accademico della teologia, ma da fratello credente che ha del suo da condividere.
Senza tralasciare il lavoro pastorale feriale e ordinario, è cosa buona che ogni credente trovi responsabilmente il tempo per ascoltare e il coraggio per parlare. Ritengo che su questo campo, il campo delle relazioni, si giocherà buona parte della tenuta delle nostre Chiese nel prossimo futuro. Le opportunità non mancano: la nascita di un bimbo, un successo scolastico o professionale, la Festa di Prima Comunione dei figli, le nozze celebrate davanti all’altare, i colori del tramonto, l’incanto dell’autunno e delle altre stagioni, una lettura appassionante, la gioia del vivere, una bella vacanza, un bacio… oppure… la visita di una persona noiosa e petulante, una piccola calunnia ricevuta, una ingiustizia subita, un fallimento, la malattia del nonno… un fatto di cronaca nera, un dramma consumato tra le pareti di casa, un’immagine di miseria e di abbandono, una scena di conflitto armato vista alla TV, un atto di terrorismo, la visione della stupidità e della cattiveria umana… Tutto, proprio tutto può diventare, anzi domanda di diventare cosa da ascoltare, con l’orecchio della razionalità e con l’orecchio del credente. Tutto, tuttissimo, può trasformarsi in luogo dove condividere la nostra fede, dove promuovere la vita, dove far spazio al Dio che nasce. Buon Natale!
(Natale 2003 – dal Bollettino delle Parrocchie della Val Meduna)