I Vangeli festivi nell’arte

Introduzione di Don Fabrizio al volume di G.Olcuire “Vangeli festivi nell’arte”

Prosegue, a buon diritto, il progetto editoriale di Gian Carlo Olcuire con l’AVE, di commentare abbinandoli all’arte i vangeli domenicali. È infatti uscito “Vangeli festivi nell’arte. Marco – Anno B“, il testo che commenta ogni vangelo della domenica e delle feste di questo anno liturgico, a partire da un’opera d’arte (Ave, Roma 2023, pagg. 136, euro 19,00). Il volume prosegue la serie iniziata l’anno scorso con i Vangeli festivi dell’anno A (Marco).

Si procede perché piace: Giancarlo ha riscosso consenso e successo. Egli si inserisce in un filone dell’annuncio della Bellezza con la bellezza, la via pulchritudinis, sul quale si è soffermata con delle annotazioni stimolanti e progettuali l’Esortazione apostolica di Francesco: «Come afferma sant’Agostino, noi non amiamo se non ciò che è bello, il Figlio fatto uomo, rivelazione della infinita bellezza, è sommamente amabile, e ci attrae a sé con legami d’amore. Dunque si rende necessario che la formazione nella via pulchritudinis sia inserita nella trasmissione della fede. È auspicabile che ogni Chiesa particolare promuova l’uso delle arti nella sua opera evangelizzatrice, in continuità con la ricchezza del passato, ma anche nella vastità delle sue molteplici espressioni attuali, al fine di trasmettere la fede in un nuovo “linguaggio parabolico”»(Evangelii Gaudium, 167)

Gian Carlo si innesta in un filone pastorale e formativo che in Italia inizia a ingrossarsi, arricchendosi di approcci, di metodi e di riflessione teologica. Ricordiamo il progetto Vie della Bellezza della Cei, Karis di Verona, Ar-Theò… Pietre vive… l’esperienza di suor Maria Gloria Riva e dell’architetto Micaela Soranzo (vedi anche Bellezza e Parola. Percorsi formativi tra arte e catechesi, Ave, Roma 2023).

 

Il volume è frutto della sensibilità grafica e artistica dell’autore, nonché del suo amore per la Parola. Smarcandosi da un approccio didascalico, moralistico, funzionalistico e autoreferenziale, che sarebbe l’anticamera della noia, Gian Carlo per vie intuitive e spontanee – sempre utilizzando il registro interpretativo di fondo della fede – mette in dialogo vangeli e forme d’arte. Ciò che gli esce dalla penna e dalla scelta delle opere d’arte è l’esito di una personalissima immersione e commozione – estetica e contemplativa (estatica) – tra i materiali biblici incrociati con quelli artistici, senza disdegnare opere popolari o manufatti contemporanei. L’arte, con le sue tipologie, forme, tecniche, prospettive… contesti culturali, committenti, intenzioni degli autori, finalità, si presenta come un giardino fiorito di inesauribile varietà e creatività.

La Sacra Scrittura, sempre “egemonica”, alla quale spetta un primato, emerge ancor di più per una generosità ed eccedenza infinita di riflessi e iridescenze della Verità-Bellezza. Incontrando l’arte, la fa “esplodere” per fantasia, rendendola sacramento, finestra e svelamento del Mistero. Nulla vi è di più affascinante e irresistibile del cuore di Dio, che fa battere il nostro cuore riempiendolo di stupore e di speranza. Balthasar, a proposito del dialogo tra estetica ed etica, tra sensibilità/arte e Parola – diremo noi −, cita il caso e il pensiero di Kierkegaard come decisivo per l’epoca moderna: «Non consegue affatto che la sensibilità sia stata annientata dal cristianesimo. Il primo amore ha in sé il momento della bellezza, e la gioia e la pienezza […] possono benissimo essere assunte nel cristianesimo» (H.U. von Balthasar, Verbum Caro, Morcelliana, Brescia 1972, pp. 114-115)

Oltre alla piacevolezza e utilità della lettura per un accrescimento spirituale e personale/meditativo, esortiamo a essere intraprendenti utilizzando le pagine di Gian Carlo come una tavolozza nella quale intingere i pennelli per programmazioni formative di gruppo o per la costruzione di para-liturgie. Parafrasando una frase del Libro di Neemia (Ne 8,10), auguro a ciascun lettore di assaporare quanto la bellezza del Signore sia la nostra forza.

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Mlac e non solo, quindi Mlac&Arte

Intrigante il tentativo di porre a confronto Mlac e arte, una realtà associativa e una realtà artistica, una produce formazione e azione pastorale sul lavoro e l’altra produce bellezza, la prima si occupa di lavoro e la seconda può occuparsi di lavoro. Proviamo quindi a far interagire il Movimento lavoratori di Azione cattolica e un’opera d’arte cara al Movimento stesso, ci piacerebbe che quasi dialogassero per mostrare le loro reali e nobili intenzioni che quasi combaciano, anzi l’una concorre a mostrare ciò che preme all’altra.

Introduciamo innanzitutto il San Giuseppe falegname di Georges de La Tour. Vi invitiamo ad interrompere la lettura di questo testo − per quanto basterà – in modo tale da contemplare con calma il dipinto, osservandolo e gustandolo. Siamo nella penombra di una bottega artigianale volutamente spoglia, de La Tour ha imparato la lezione chiaroscurale di Caravaggio, togliendo di proposito con il fondo nero tutto ciò che può disturbare, e non risultare essenziale, per dar maggior risalto agli elementi simbolici raffigurati. Un anziano calvo e corrugato, che immediatamente identifichiamo con san Giuseppe, il patrono del lavoro e dei lavoratori, sta piegato con le maniche del camiciotto arrotolate su un trapano a mano. La presa è sicura ed esperta nel gesto, le braccia si presentano ancora vigorose. La sua fronte la troviamo vicinissima a quella del Figlio adolescente. Un lume viene retto con eleganza dalla mano destra del ragazzo, che ne attenua la luce o ne protegge la fiamma con la mano sinistra. La fiamma che si alza generosa e soprattutto il viso luminoso del Figlio – acceso di luce propria e soprannaturale – illuminano la scena. Per contrasto viene evocata una penombra, una notte altra, oggettiva e misteriosa nel contempo, quasi una tenebra esistenziale e spirituale. E ancor più, si contempla il vigore della luce che rimanda ad una luce altra, una luce taborica, di bellezza divina. In aggiunta, si noti, insieme al gioco di contrasto tra luce e tenebre, l’opposizione tra anzianità e innocenza, tra lo sguardo apprensivo del padre che fissa un punto indeterminato (il destino del Figlio?) e lo sguardo di Gesù che sembra fissare il volto del Padre suo, al quale con le labbra socchiuse sta pronunciando il suo sì. Qui emergono, tra la luce e il colore ramato e caldo, persone e cose in un’atmosfera di intimità, rarefatta, per certi versi fuori dal tempo eppure feriale e concreta.

Nell’opera di de La Tour si celebra la quotidianità del lavoro fatta di responsabilità e cura, ed inoltre la relazione educativa e collaborativa dolce ed efficace. Sappiamo che i lineamenti di Gesù sono quelli del figlio dell’artista, che hanno in questo modo contribuito a conferire ulteriore fascino all’immagine nel tratteggiare affetto e tenerezza. Da notare il pezzo di trave su cui si lavora, la quale svela la vocazione ultima del ragazzo, egli in fondo sta apprendendo con Giuseppe e nella “bottega” del cuore il mestiere del vivere. Se zoomiamo sui sandali andiamo a scoprire che i due indossano le medesime calzature, ad indicare una intesa formativa, un passaggio di consegne, una traditio viva, un ricevere un’abilità che andrà proseguita ed interpretata con creatività e originalità. Nell’occhio di Giuseppe c’è come un luccicore. Forse una lacrima di consapevolezza e di commozione? O di gioia e di legittimo orgoglio paterno? Giuseppe “vede”, non è “cieco”, infatti sta facendo spazio ad una luminosità, ad un senso, ad un progetto, ad un Mistero che non viene da lui. Geniale la mano traslucida del Figlio, dettaglio di comprovata bravura e di valore teologico anch’esso. Tra le dita e le unghie della mano vi è della sporcizia, la quale richiama l’Incarnazione, la solidarietà con la terra, con la carne degli uomini, con quanti lavorano e si curvano sulla terra per custodirla. Ritornando all’elemento della luce, ci è dato di apprezzare il ruolo centrale della fonte luminosa nell’opera e nella comunicazione con lo spettatore. Essa conferisce leggibilità, ordine e bellezza all’istantanea lavorativa, segnala inoltre la luce del Vangelo, della Verità, del Logos, della Parola anch’essa lampada per i passi dell’uomo, in grado di apportare senso al faticare umano. In tal modo, il lavoro diviene attività nobile e alta, coinvolgimento nell’azione creativa e generatrice di Dio. Perciò dalla abilità artigianale del carpentiere, che conosce i misteri del legno ricavandone oggetti utili con sapienza pratica ed estetica, risaliamo al lavoro in sé come arte e vocazione. Così, l’uomo – faber – edifica il mondo e il regno di Dio insieme, costruisce la sua personalità e dignità, mette in piedi una famiglia. Senza lavoro sarebbe uno scarto, un rifiuto sociale, uno squalificato e impoverito lasciato ai suoi bisogni.

La verità, in aggiunta, agisce come la luce artistica, conferisce senso, e perciò fa emergere il non-senso di un lavoro non-libero, non-solidale, non-creativo, non-partecipativo, di una attività umana ridotta a merce, sottopagata e sfruttata. Che triste quando l’operatività dell’uomo degenera in competizione, si corrompe in ambizione, si trasforma in una corsa all’accumulo. In tal modo, il lume di de La Tour mette a nudo le ingiustizie sociali, le distorsioni della tecnocrazia finanziaria, i deficit etici.

Tuttavia l’opera, in una azione-lavoro formativo che gli compete, non intende concentrare l’occhio sullo scuro, ma sul chiaro che lo scuro stesso contribuisce ad evidenziare. Il Mlac intende fissare lo sguardo, fare luce, applicare il suo discernimento sui contesti sociali locali e globali. La sua lettura interpretativa dei fenomeni economici e lavorativi vuole essere franca e competente, muovendosi da una prospettiva di fede, con la strumentazione offerta dalla Dottrina sociale. Il Mlac è bene rimanga estremamente sensibile per gioire, contemplare, festeggiare, ma anche per indignarsi e denunciare, e ancor più per appassionarsi alle ragioni del bene. Il discernimento parte dall’ascolto e dall’osservazione, dall’orecchio e dallo sguardo, e passando per il cuore finisce per ideare e attuare delle decisioni, coinvolgendo le mani. Oltre al discernimento ecclesiale, al Mlac compete l’evangelizzare sempre, ovunque, comunque, attraverso vari e differenti canali: formazione, eventi culturali, bandi di progettazione sociale, contest ispirati alla dottrina dell’ecologia integrale, installazioni artistiche, social, newsletter, offerte di preghiera strutturata, dibattiti… alleanze con altre agenzie che si occupano delle medesime tematiche.

Esiste già una attività umana lavorativa sana e santa, un brulicare di fermenti di giustizia  e di fraternità, un luccicore di segni di speranza da godere e da rilanciare con l’ausilio dello Spirito, ai quali il Malc vuole portare il suo umile e intraprendente contributo, perché la storia divenga giardino ospitale ed inclusivo.

Don Fabrizio

San Giuseppe falegname o San Giuseppe carpentiere è un dipinto del pittore francese Georges de La Tour realizzato intorno al 1642 e conservato al Museo del Louvre a Parigi in Francia. Il dipinto fu donato nel 1948 da Percy Moore Turner per il Museo del Louvre. Olio su tela. Dimensioni  137×102 cm.

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La virtù della costanza

Un verbo vicino alla sapienza e all’arte del coltivatore diretto, che attende con fiducia, si prende cura del suo campo, vigila e custodisce il processo della crescita. “Accompagnare”: il verbo che è in cammino con noi, nella pastorale e nella vita

Per inquadrare la breve riflessione sul verbo “accompagnare”, uno dei verbi da interpretare e da applicare per una Chiesa in uscita, e che troviamo nell’esortazione Evangelii Gaudium al n. 24, è opportuno richiamare i verbi che precedono: prendere l’iniziativa, coinvolgersi; e che seguono: fruttificare e festeggiare. Tutte parole e azioni che possiedono una qualità dinamica, ovvero impossibile  vietato “fare la nanna”, addormentarsi in una tristezza dolciastra, poiché la missione urge, il Vangelo domanda di essere narrato e di correre. I primi verbi impongono un accumulo di energia spirituale e pastorale, trattandosi di metter in moto un cambio del cuore, di riformare la pastorale, di partire con obiettivi, criteri, modalità ripensati e creativi, obbedendo alla fantasia e ai doni dello Spirito. Gli ultimi evocano la gioia del raccolto, il tempo della gratitudine e della lode, la festa per un Dio generoso. Il nostro “accompagnare” si trova nel bel mezzo, quasi a raccogliere lo sforzo ideativo iniziale insieme a quello teso alla speranza e alla fruttificazione. Un verbo vicino alla
sapienza e all’arte del coltivatore diretto, che attende con fiducia, che si prende cura del suo campo, che vigila e custodisce il misterioso e affascinante processo della crescita. Etimologicamente accompagnare è imparentato con compagno, ovvero cumpanis – colui che mangia lo stesso pane, per cui evocherebbe una amicizia, una commensalità, una vicinanza… in cammino, passo dopo passo, senza mollare, con undesiderio carico di fiducia.

LA LOGICA (VECCHIA) DEL FARE

Addentrandoci nelle faccende ecclesiali ed associative, si direbbe che l’accompagnare mal sopporta la fretta, l’ansia da prestazione, la mania di totalizzare numeri straordinari, il bisogno di performances favolose, gli amanti dell’audience e del vincere facile…
quello che tecnicamente si dovrebbe qualificare come “logica evenemenziale”, ovvero degli eventi con gli effetti speciali. Il superattivismo e lo stakanovismo in pastorale fanno ammalare, stufano sul medio termine e non evangelizzano nessuno, finendo infatti per mettere in circolazione facce da funerale. Decisamente interessante lo studio condotto da Paola Bignardi, ex presidente nazionale dell’Ac e membro dell’Istituto Toniolo dell’Università del Sacro Cuore, partendo dalla recente indagine sui seminaristi del Triveneto (in Rivista del Clero, 2/2023). Semplificando, la ricercatrice evidenzia come i giovani in formazione nei seminari aborriscano una parrocchia sovraccarica di attività, incapace di liberarsi da consuetudini e servizi ereditati dal passato. Una comunità parrocchiale che accumula progetti e iniziative, per la quale domina la regola del “si è sempre fatto così”, e che alla fine risulta stressante e per nulla appetibile. Eppure, paradossalmente  nota la Bignardi il gruppo maggioritario dei seminaristi si autocandida a perpetuare il modello ricevuto, immaginandolo addirittura ulteriormente arricchito, nella convinzione immotivata che, con un surplus di entusiasmo e di vigore giovanile, le cose si metteranno per il giusto verso. Perciò, verrebbe da pensare che l’accompagnare non goda dimolto appeal, infatti coloro che intendono partire a razzo non saprebbero che farsene, sognando all’inverso messi oceaniche, e mal sopporterebbero ritardi, fragilità, slabbrature, senza peraltro avvedersi che i malanni andrebbero trasformati in occasioni formidabili di cambiamento e di speranza. Insomma, l’elogio della lentezza e della fragilità – come qualcuno lo definisce – non si addice ai presunti furbi e scaltri della pastorale (smart man).

LA CURA DELLE RELAZIONI

L’accompagnare si appella alla sensibilità spirituale evocata da Giacomo nella sua lettera attraverso una metafora agricola e
stagionale: «Siate dunque costanti, fratelli, fino alla venuta del Signore. Guardate all’agricoltore: egli aspetta con costanza
il prezioso frutto della terra finché abbia ricevuto le prime e le ultime piogge. Siate costanti anche voi. […] Noi chiamiamo
beati quelli che sono stati pazienti» (Gc 5,7-8.11). La pazienza, per noi l’accompagnare, viene chiamata macrothymia, ossia
animo grande e “lungo”. Essa andrebbe interpretata sulla scorta del Libro della Sapienza, avvicinandosi così a un atteggiamento che trattiene l’impulsività, la rincorsa al tutto-bene-subito, e che contiene un sano senso di realismo e di benevolenza.
La costanza cristiana è animata dalla speranza poiché si appoggia con fede alle promesse di Dio, mai fasulle e ingannatrici, le quali anticipano le operazioni umane. Traducendo ulteriormente, potremmo interpretare l’accompagnare come una forma di duplice cura. La prima forma, imprescindibile e già di per sé stessa vera azione pastorale – quindi non previa e propedeutica alla pastorale –, anzi la pastorale per eccellenza è la cura delle relazioni, da modularsi nella stima, nell’ascolto, nella fraternità e sororità, nell’esercizio della
paternità e della maternità, nella propensione alla misericordia, nella gioia. «Ecco,com’è bello e com’è dolce che i fratelli
vivano insieme!» (Sal 133,1). La seconda è un accompagnare che si declina in una cura generativa ed ecclesiale, che si concretizza nel fiutare e scovare, come abili rabdomanti, talenti, risorse e carismi gettati nel terreno dei battezzati, e non solo di essi. Nel linguaggio corrente si dovrebbe parlare di un’azione di scouting, di scoperta delle sorprese che lo Spirito semina, non con piglio funzionalista e organizzativo, ma con l’animo di colui a cui sta a cuore il bene vocazionale delle pecore, del gregge… delle donne e degli uomini di
oggi. Cura, svelamento, accompagnamento formativo, valorizzazione e messa in rete di antiche e nuove forme di ministerialità,
immaginando e desiderando la vita asso-cambio di passo ben fondato, gettando mente e creatività oltre l’ostacolo della solita lagnanza.
Evocando e parafrasando gli studi di Emanuele Severino, un grande filosofo del ‘900, dovremmo riconoscere che siamo figli della tecnica, della tecnologia, dell’intelligenza artificiale, la quale ha mandato a gambe all’aria il mito della fatica, affrancandoci dal pesante sacrificio per sostituirlo con altri miti e ideologie?! Siamo convinti che la strategia della costanza e dell’accompagnare possano essere tra gli
strumenti indispensabili per stare dentro alla complessità di oggi, senza agitarci senza nostalgie e senza fughe in avanti, con spirito gioioso e generativo

Don Fabrizio De Toni

Assistente centrale Settore adulti AC e Mlac

Articolo pubblicato su

Segno 2-2023_  bassa

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