Renè Magritte – Decalcomania 1966
Agosto e settembre sono i mesi nei quali escono di norma le nuove nomine dei presbiteri. I giornali locali tentano, talvolta sparando lontano dal bersaglio, di anticipare la comunicazione diocesana, sapendo come sia l’argomento appetibile per il pubblico. In queste settimane stiamo registrando un sentimento di disorientamento nelle comunità cristiane coinvolte nei cambi. Spostamenti e traslochi sono parte integrante del curriculum dei preti diocesani. Essi sono dedicati per il bene della chiesa locale, tutta intera, e perciò itineranti e mai sedentari. Le ragioni del cambio vanno dal banale posto vacante, il quale evidentemente va presidiato, a tensioni personali o pastorali da alleggerire fino ad arrivare a dei progetti da sperimentare. Lo spaesamento è più che comprensibile e i motivi sono presto detti: non si comprende la sensatezza di scardinare degli equilibri e dei ritmi costruiti con fatica; la separazione viene avvertita in primis come un lutto difficilmente elaborabile; si teme che il temperamento e la sensibilità di chi arriverà vadano in conflitto con i progetti della comunità… La risposta, ovvia, per trovar soluzione a tali disagi sta in un appello alla maturità di presbiteri e comunità. A mio giudizio esistono anche delle vie pastorali possibili, le quali possono consentirci di evitare paure senza fondamento o cortocircuiti dannosi tra fedeli e nuovo pastore. Innanzitutto il disagio vissuto ci esorta ad una accelerazione del processo di avvio delle Unità Pastorali. Siamo ancora ai primi timidi passi. Alcune reti inter parrocchiali arrivano a stento ad accordarsi sugli orari delle messe. Esistono già tuttavia delle interessanti esperienze di pastorale battesimale o di iniziazione cristiana dei ragazzi condotte a questo livello che, oltre a sgravare non poco le spalle del povero reverendo incalzato da mille urgenze, consegnano ai laici la giusta corresponsabilità ed imprimono alla pastorale ordinaria un carattere marcatamente missionario. Infatti, si incontrano le giovani famiglie nelle loro case, e si stabiliscono delle buone relazioni nelle quali adulti narrano la loro fede ad altri adulti in un contesto di accoglienza. Oltre a quella che potremo definire una integrazione pastorale tra parrocchie vicine, ne esiste una di tipo presbiterale. Si stanno moltiplicando esperienze di fraternità con presbiteri viciniori, superando il vezzo clericale della competizione e dell’isolamento olimpionico di un tempo, dove tutt’al più si faceva cameratismo con i preti della ‘classe’. Una fraternità che contempla forme differenziate, le quali vanno da modalità impegnative di vita comune alla buona prassi di incontrarsi settimanalmente per la preghiera, il confronto, l’amicizia, il pasto… la programmazione pastorale. I vantaggi quasi non abbisognano di essere verbalizzati. In uno scenario di reti amicali, presbiterali o comunitarie che siano, sostituzioni, avvicendamenti… e financo assenze (alcuni possono ritrovarsi con la canonica vuota) non saranno interpretati come sciagure da cui difendersi. Nell’integrazione non viene smantellata una progettualità. Essa ‘regge’ il tutto, e chi arriva, senza volerne umiliare libertà e fantasia, è chiamato ad inserirsi con sapienza ‘reggendo’ e lasciandosi ‘reggere’ a sua volta.
Don Fabrizio
Articolo pubblicato sul settimanale diocesano Il Popolo del 6.08.2017