Stiamo entrando nell’ambiente liturgico e culturale del Natale e si moltiplicano le bancarelle della solidarietà. Sbucano nelle Chiese, nelle Scuole e nelle piazze cartelloni, ‘scatoline’, progetti che propongono raccolte, finanziamenti, opere da realizzare. Più di qualcuno viene infastidito da questa overdose di richiamo alla bontà. Altri si lasciano smuovere e commuovere sentendo una sorta di bisogno interno e materno ad essere almeno una volta all’anno più sensibili. Naturalmente è sotto gli occhi di tutti l’armata dei volontari, dei giovani e degli adulti delle Associazioni di servizio. Non sfugge all’attenzione dei più l’animazione diffusa e capillare di quanti si sono messi alla scuola del Buon Samaritano. Questo evidentemente fa piacere ed ha a che fare con il Regno di Dio. A questo punto ritengo sia utile spendere un paio di parole per incoraggiare ad entrare nella dimensione della condivisione da credenti, in modo convinto e autentico, evitando la logica dell’elemosina avara e spicciola. Se ci ispiriamo a motivazioni che arrivano dalla radice della fede ci metteremo al riparo da fastidi controproducenti, o da facili esuberanze che velocemente si trasformano in stanchezze, della serie ‘Vadano a farsi benedire anche i poveri’, compresi quelli di casa nostra.
Provo a partire dall’identità stessa del credente. Noi siamo chiamati ad amare Dio con tutte le nostre forze, con tutto il patrimonio delle nostre risorse affettive, di cervello, di volontà… e visto che ci siamo, anche con le nostre disponibilità economiche e di tempo. Noi siamo congegnati proprio per questo, in tale relazione si nasconde il mistero della nostra libertà, della nostra riuscita. Ora più viviamo con intensità questa relazione verticale, più diamo spazio al primato di Dio, più ce ne innamoriamo e più acquisiamo i suoi gusti, le sue tendenze, i suoi criteri, le sue scelte. E guarda un po’, inizieremo a mobilitarci per i più piccoli, per gli svantaggiati, per i disgraziati della storia. Inizieremo insomma ad amare esattamente quello che Dio ama, perché Lui è Padre e Madre e difende i suoi figli, ad iniziare da quelli meno fortunati. Ricordate la storia del bacio al lebbroso di frate Francesco, l’inventore del presepio, il cantore del Natale? È talmente preso da Dio, che si lascia prendere dai gusti di Dio, sino a baciare il dis-gustoso volto del lebbroso. E ciò che gli era di ribrezzo si trasforma per lui in diletto piacevole. È su questo punto che val la pena di insistere, perché quando noi partiamo dalla nostra identità, quando mettiamo in moto il nostro desiderio allora ci diventa connaturale, ordinaria, bella, piacevole la condivisione e non sarà più necessario quantificarla perché ne saremo totalmente coinvolti.
Mentre scrivo ho sotto gli occhi ‘Korogocho’ una delle ultime pubblicazioni di P. Alex Zanotelli. Dall’inferno di quella spaventosa baraccopoli costruita sopra una gigantesca discarica alla periferia di Nairobi, P. Alex racconta di Florence, una ragazzina che ad 11 anni aveva iniziato a prostituirsi, che a 15 si era ammalata di AIDS e che a 16 stava morendo sola come un cane, coperta di pustole, abbandonata anche dalla madre. Mentre Alex e compagni la consolavano e pregavano con lei, Florence esclamò alla luce di un cero che le illuminava il volto ancora bello nonostante le piaghe: ‘Dio è Madre… e in fondo io sono Dio’. Curioso e affascinante! Partiti dall’amore per Gesù e il suo Vangelo, arriviamo ai poveri per condividere, dai poveri siamo benedetti ed evangelizzati, nei poveri troviamo un immenso tesoro, e da loro ritorniamo a Dio.
E il cerchio si chiude e riparte in un movimento che non consente pausa e noia.
(Natale 2006 – dal Bollettino delle Parrocchie della Val Meduna)
Accompagnando o prendendo i miei nipotini da scuola, trovo tanti miei simili, e, dopo i saluti, diciamo sempre le stesse cose: “È veramente una cosa meravigliosa essere nonni!”. Poi si continua con il: “Vi ricordate quando noi frequentavamo le elementari? Il sachet fatto di pezza o la cartella di cartone, il grembiulino cucito, che copriva i pantaloni rotti un’altra volta, la sciarpa, i calzetti di lana fatti dalla mamma o dalla nonna, mentre portavano con la gerla legna, foglie, fieno o letame. Adesso sono tutti vestiti come principi o principessine… Che zainetti! Che giubboni! Sono veramente belli, uno più dell’altro! Noi non eravamo così. Il tempo passa e tutto cambia. Ma sarà vero, che si ritorna indietro e che ritorneremo poveri? Quella fabbrica chiude, quelli sono in cassa integrazione… non è che vada tanto bene, non c’è più tanto lavoro, noi nonni abbiamo un po’ di pensione e tiriamo a campare. Ma per i giovani, non è che si presenti tanto chiara! Speriamo per tutti non sia così…”
Un po’ lunga o un po’ corta, la conversazione è sempre la stessa. È vero, il periodo che stiamo passando ha qualche recessione e, poco o tanto, tutti la sentiamo. Però, pur essendo così, durante l’estate, ad ogni sagra la gente non mancava; luoghi di villeggiatura, treni, auto, aerei erano colmi di vacanzieri; tutti noi abbiamo fatto una grigliata o qualche giorno di festa!
A questo punto mi chiedo: è povertà questa? È miseria?
Certo a qualche superficialità abbiamo dovuto rinunciare… Pensando ai nostri genitori e ai nonni, possiamo dirci poveri nei loro confronti? Onestamente e assolutamente, no! I nostri paesi sono stati di emigrazione ed anch’io ho preso la valigia.
Nel modo più assoluto senza alcuna pretesa, mi permetto di raccontare qualche cosa…
Ragazze con addosso un paio di stivali, grandi oltre misura, che lavoravano nel fango, alto fin sopra il ginocchio, per una ciotola di riso; persone che per tetto avevano due lamiere rotte o qualche ramo secco e, come lavoro, l’andare per i campi dopo il raccolto, per trovare un pugno di riso; gente che si esprimeva con gli occhi, perché la bocca era troppo secca e non riusciva a parlare… Vorrei continuare, ma sono sicuro che diventerei noioso. Chiedo il permesso per poter dire un’altra cosa.
Il bambino accanto alla mamma, sfinita con il martello in mano stava spaccando pietre; il papà, con un cesto sopra la testa, le trasportava in un altro luogo. Guardai quel ragazzino… avrà avuto più o meno l’età del mio nipotino: sette o otto anni. Con la mano lo invitai a venire da me. Guardò la mamma per chiedere permesso e, dopo aver avuto conferma, venne. Levai dalla borsa una bottiglietta d’acqua e cinque o sei caramelle. L’amico gli mise in mano due lattine di coca cola. Con timidezza, prese ciò gli era stato offerto e con un salto andò dai genitori. Mentre parlavano tra loro, ci guardavano. Non capivo cosa dicevano, ma capire era inutile: i loro volti esprimevano umiltà, gratitudine e riconoscenza.
Mi fermai qualche minuto per sentire e per guardare quel grazie così immenso. L’amico, che era del luogo, rivolto a me, disse: “Oggi abbiamo fatto veramente felice quel bambino! Forse non aveva mai avuto caramelle”.
Alla sera, da solo, ho pensato a quando ero ragazzino io: mai e poi mai ho avuto fame e sete! …e come diceva la nonna: “La bocca non è mai stata schiaffeggiata!”. Il piatto era sempre pieno. Se non era di mio gradimento, non aspettavo tanto per dire: “eh, ma nonna…” o “Mamma, sempre pasta, riso, minestra, frittata e formaggio! Non voglio mangiare questo! Fatemi qualche altra cosa!”. E pur ricevendo qualche sgridatina, il più delle volte mi veniva cucinato ciò che più desideravo.
A questo punto dico e vorrei dire ad ognuno di noi: “Preghiamo Dio in fede e con fede assoluta, che mai venga quel giorno, che sentiremo i bambini dire: “Abbiamo fame e sete”, a cui dovremo rispondere: “Non abbiamo niente: n’è da bere n’è da mangiare…”
Mi torna spesso in mente un episodio accaduto quand’ero bambina, che mia madre era solita raccontare.
Un giorno mia madre andò a trovare un’anziana donna ammalata, inferma a letto, che abitava non molto lontano da casa nostra. Appena varcò la porta della sua camera, quella donna si mise a piangere e commossa le disse: “Mi sembra di vedere il Signore…, qui non viene mai nessuno.” Solo in quel momento mia madre si rese conto dell’isolamento, della solitudine , dell’emarginazione, in cui vivevano quella povera donna e la sua famiglia.
Io credo, come diceva Madre Teresa di Calcutta, che prima di tutto siamo chiamati ad accorgerci dei bisogni delle persone che ci sono vicine, nella stessa casa, nello stesso luogo di lavoro, nel vicinato, ecc. Solo dopo aver imparato ad amare e a prenderci cura di loro, possiamo allargare lo sguardo anche ad orizzonti più lontani.