In questo scorcio di storia conflittuale e tesa, ma pur sempre storia benedetta dalla Grazia, mi piace andare con la memoria all’immagine della Pentecoste. E’ un affresco pieno di speranza. A Pentecoste lo Spirito, la Ruah Jahvè, il Respiro forte di Dio fa irruzione nella stanza dove erano raccolti i discepoli del Risorto. Animati dalla Sua presenza iniziano a parlare lingue differenti: le lingue dell’area mediterranea e dell’area mesopotamica. Le lingue del villaggio globale di allora. E comunicando in lingue diverse si capiscono e vengono capiti. Nasce così embrionalmente un’Antibabele, una umanità riconciliata, una famiglia dove ci si intende. Questo è il sogno di Dio. Questo è il suo progetto sulla storia. Questo è ciò che accadrà nella sua interezza e intensità nell’eternità. Il desiderio di Dio si chiama: comunione delle diversità. Comunione quindi, non confusione, lacerazione, dispersione, divisione. Quanto sciocchi allora certi individualismi personali e financo di gruppo (la ‘mia’ famiglia: delle altre non mi interessa; il ‘mio’ partito, la mia Congregazione, la ‘mia’ Parrocchia, la ‘mia’ cultura…). Un’affermazione iper-accentuata e fissata del proprio ‘Io’ che non sente più necessario e bello il dialogare con il ‘Tu’ per fare comunione con lui. Nascono qui le varie solitudini, le conflittualità, i nazionalismi esasperati e radicaloidi… nasce qui Babele. Tutto ciò che si muove, dentro e fuori la Chiesa, nella logica della cooperazione, dell’ascolto, della fraternità e della comunione ha a che fare con il Regno di Dio, è esperienza umana da benedire e già benedetta da Lui, il Dio amante della comunione, il Dio Trinitario che è in sé comunione delle differenze. Comunione, dicevamo, ma anche diversità.
Il Creatore stesso crea e vuole la diversità, la differenza. L’omologazione, l’appiattimento, l’uniformità lo angoscerebbe. Interessante l’analisi di chi scorge nella nostra cultura occidentale i segni di una ‘omosessualità latente’. Non nel senso che siamo tendenzialmente omosessuali e lesbiche (da un punto di vista sessuale), ma dall’atteggiamento omosessuale, cioè di chi mal tollera la differenza (l’omosessuale infatti è innamorato di chi è uguale a sé). Tanto nervosismo e intolleranza ha la sua radice anche qui: vorremo gli altri uguali a noi. Ci disturbano infatti quelli che ‘sentono’ differentemente da noi, chi non si organizza come noi, chi non ha gusti, tradizioni, cultura, identità religiosa, lingua come noi. Ma ve la immaginate una terra fatta di cloni e di fotocopie. Buffo, poi, osservare un sacco di giovani e di meno giovani che si illudono di essere originali e di distinguersi per il solo fatto di scoprire l’ombelico o di frequentare i pubs più gettonati, senz’accorgersi che così fan tutti. Un sogno, allora da condividere quello di Pentecoste: la Comunione delle differenze. Dove la differenza non si arrocca, non si avvita su di sé, ma impara ad apprezzare la differenza altrui e crea con essa, e grazie ad essa, comunione e famiglia. Non è forse questa la domanda attuale della nostra terra sempre più globalizzata? Don Fabrizio 04.05.2004
Quandi mia figlia più grande frequentava le elementari, durante una riunione di classe dei genitori con le insegnanti, parlammo proprio di questo argomento:la diversità.
Un’insegnante, molto intelligentemente, ci disse che era necessario e urgente abituarsi ad accettare le diversità:anche in quella scuola cominciavano a esserci degli stranieri.
Tornata a casa, guarda Caso, mia figlia più grande si lamentò, infastidita, perchè non riusciva a capire su sorella, di quattro anni più piccola di lei. Compresi subito che la soluzione al problema stava proprio nelle parole che avevo appena ascoltato dalla maestra. Spiegai allora a mia figlia che sua sorella non era nè più buona nè più cattiva di lei, era solamente diversa, aveva un altro carattere. Per andare d’accordo doveva solamente accettarla, così com’era.
Lo stesso discorso lo feci anche agli altri figli man mano che diventarono più grandicelli.
Ho raccontato questo episodio perchè io penso che la comunione delle diversità si impara prima di tutto in famiglia.
I miei tre figli sono molto diversi l’uno dall’altro, sia nell’aspetto fisico che nel carattere. E’ una cosa che balza subito agli occhi e che, ricordo, ha colpito anche lei.
Mi ha sempre stupito e meravigliato questa diversità:mi ha fatto toccare con mano la Grandezza e la ricchezza di fantasia del nostro Creatore. La diversità è un dono in più, un valore aggiunto.
E’ stato proprio l’apprezzamento di questa loro unicità, che ha impedito che si sentissero antagonisti e gelosi gli uni degli altri, e che ha rafforzato il legame fraterno.
La diversità più grande però, penso sia quella che c’è tra me e mio marito. Ricordo che quando ci siamo messi insieme, ventisette anni fa, la cosa fece molto scalpore (erano altri tempi!), e qualcuno ci chiamava scherzosamente ‘Peppone e Don Camillo’.
Poco dopo le nozze, avvenute dopo appena cinque mesi di fidanzamento, addirittura qualcuno incautamente, mi chese come avevo fatto a sposare ‘uno così’. Io risposi con naturalezza, e un po’ divertita, che la nostra unione era la dimostrazione che a Dio nulla è impossibile.
Non nego che ci siano state delle inevitabili difficoltà lungo il cammino, ma grazie alla fede e all’amore, le abbiamo sempre superate.
Poco tempo fa si è fermato a mangiare da noi, come sempre quando passa di qua, un ‘vu cumprà’ nigeriano. Terminato di pranzare, prima di andarsene mi disse:”Io mi fermo volentieri a mangiare in questa casa, perchè vi volete bene”.
Penso sia la cosa più bella che poteva dirmi.
Cito più o meno a memoria, una frase sentita circa un anno fa, non dalle pettegole della borgata di turno, ma da un’operatrice diocesana, che si occupa di pastorale della famiglia, venuta a fare catechesi ai genitori dei bambini della Prima Comunione: “figli a disagio, perchè si ritrovano molto spesso ad avere otto nonni…”. La signora, che oltretutto ci teneva a sottolineare di essere l’unica laureata tra i suoi compagni di scuola, non è mi è risultata molto simpatica. L’ho trovata superficiale e dal tono vagamente moralistico.
È una frase fatta che ho sentito nella bocca di altri ‘formatori’, chiaramente riferita ai figli di genitori separati o divorziati, i quali hanno spesso modo di relazionarsi anche con le famiglie dei nuovi compagni dei rispettivi genitori. Neanche che l’appartenenza di questi bambini ad una famiglia ‘allargata’, rappresenti una deformazione cromosomica: otto nasi, otto gambe, otto nonni!
È una frase che detta così, porta ad una scissione dei bambini: quelli con un numero regolare di nonni e quelli promiscui, con parentele non ben definite; buoni e cattivi; regolari e fuori dagli schemi; uguali e diversi; cristiani e miscredenti.
Spero di non essere fraintesa: non è che auspico che le famiglie vadano in crisi, così da poter allargare numericamente i contatti ed il numero di nonni, ma non facciamo della difficoltà affettiva che può attraversare un nucleo famigliare, motivo di ghettizzazione!
Ci sono nonni che sanno essere accoglienti ed affettuosi, anche con i bambini che non sono propri ‘frutti’, e nonni che non riescono ad esserlo nemmeno con i loro nipoti naturali.
Io ho avuto la sfortuna di conoscere solamente la mia nonna materna. Il nonno (marito di lei) morì a 39 anni di focolaio polmonare, lasciandola vedova a soli 36 anni, con mia madre che non aveva ancora compiuto 9 anni ed un bambino di 8 mesi. La nonna paterna l’ho vista due volte a casa di mia zia, sorella di mio padre. I suoi rapporti con mio padre erano praticamente inesistenti, guastati fin da quand’era bambino. Lui fu il frutto di una relazione che lei ebbe con l’allora fidanzato, il quale sparì appena seppe che era incinta. Mia nonna partorì mio padre, ma lo rifiutò subito, lasciandolo a vivere con la sua anziana madre, sposandosi poco dopo con il padre della bambina che aveva in grembo, mia zia appunto.
Quindi, dicevo, ho avuto un’unica nonna, che fortunatamente viveva in casa con noi. Ho dormito nel lettone con lei, finché ho avuto 14 anni. Non era molto estroversa e ricordo anche una sua tristezza di fondo: d’altra parte, oltre ad essere rimasta vedova così presto, gli erano morti due figli: uno di 14 ed un altro di 18 anni. Credo sia stata già un’eroina, decidendo di continuare a vivere per mia madre e per noi nipoti.
Per me non fu un grosso problema: all’epoca in cui ero bambina, infatti, si poteva contare su una rete di relazioni famigliari allargata. Non c’erano cancelli sbarrati o citofoni gracchianti e per andare a casa dei nostri amichetti, spesso bastava attraversare la strada o saltare un fosso ed il nostro ‘territorio’ comprendeva anche le case del vicinato. A me bastava attraversare il cortile e c’era la Teresina, affettuosa vicina di casa, la quale mi ha insegnato tante cose: mi ha raccontato storie del passato, mi ha insegnato a cucire, a lavorare a maglia, mi ha insegnato vecchie canzoni; con lei mi sono confidata, lei ha consolato i miei pianti, mi ha tolto mille paure di bambina. Non di meno ha fatto Vico che, oltre che vicino di casa, era pure cugino della mia nonna paterna. Così, ho potuto ‘adottare’ nonni che non erano miei parenti, ma dai quali sono stata accompagnata finché sono stati in vita e a cui sono riconoscente per l’amore e la condivisione che hanno saputo donarmi. Mi hanno amata a prescindere, non perché ero ‘sangue del loro sangue’, ma perché ero una creatura di Dio. Hanno saputo mettere in pratica ciò che Gesù ci ha indicato come regola primaria: “ama il tuo Dio ed il tuo prossimo con tutto te stesso!”
Ecco come allora, per un bambino, l’avere otto nonni diventa un vantaggio immenso, anziché una penalità!