Usualmente trovo liberante e formativo raccontare l’esperienza drammatica della mia depressione a 32 anni. Dio mi ha lasciato macerare lentamente. Ora riguardandola posso solo benedirla e definirla la ‘mia storia di salvezza’. Non che mi consideri un arrivato. Non si può mai cantar vittoria. Tuttavia in quell’inferno interiore sono stato aiutato forzatamente a comprendere la mia verità e ad iniziare un percorso clinico, poi vieppiù formativo e vocazionale. Uno dei fondamentali che ho imparato è che ogni essere umano si porta dentro sin dagli esordi sulla scena della sua storia un ‘tarlo’, ovvero la paura di non valere. La domanda inconscia, quindi profonda e sconosciuta e proprio per questo pericolosa perché libera di agire essendo fuori controllo, suona più o meno così: ‘E’ proprio vero che conto?’. E’ come una ferita aperta, un sospetto che non dorme e che si agita, una paura primitiva, una domanda che non dà tregua. Dicevamo: un tarlo. Tale lavorio silenzioso può essere rinforzato da alcuni traumi più o meno gravi, più o meno fisiologici. Sto pensando a quelle inevitabili prove che si affacciano ad incominciare dal contesto famigliare ed educativo. Ovvio che non si resta inerti. Esistono allora delle strategie di lotta e di reazione istintive per venirne fuori, per guarire il dilemma. Si dà il caso che la quasi totalità i nostri tentativi sono votati miseramente al fallimento, o comunque non sono risolutivi, non convincono e non guariscono come dovrebbero. Molta sofferenza trova proprio qui la sua sorgente. Eccola allora la strategia del timido. Il tipo si chiude, tende ad isolarsi, se gli vien chiesto di intervenire pubblicamente arrossisce o impallidisce, il cuore gli batte a mille, guarda basso, non prende posizione. Il timido quasi rinuncia a lottare contro la sua paura: troppo faticoso. Preferisce obbedirgli e spessissimo non se ne rende conto. Crede di essere una persona educata e gentile, che non va in giro a rompere le scatole al prossimo e intanto lascia fare… anche alla sua paura. Oppure troviamo di segno opposto la strategia del bullo, del super-deciso, dell’uomo che sa il fatto suo con tutta una gamma infinita di espressioni autoreferenziali e autocelebrative. Ovvero il pauroso, colui che teme di valere poco, che si porta il peso di una certa disistima, si impone una falsa autostima, diventa Narciso, decide e si convince di essere il migliore. Il tutto anche in questo caso sempre senza avvedersene. Se le prestazioni e il consenso dell’ambiente possono dargli la percezione di valere veramente, in realtà il suo dubbio esistenziale continua a trascinarselo nel cuore. Narciso potrà solo illudersi di guarire. La stima che gli verrà dai suoi successi sul campo o dagli applausi degli altri potrà al limite rassicurarlo circa le sue bravure e le sue capacità, potrà essere sentita talvolta come intensa ed inebriante, ma rimane labile, bisognosa di essere rigenerata ad ogni piè sospinto domandando sforzi estenuanti. Il fatto è che i meriti dimostrati non placano, danno la certezza di valere per alcune abilità e competenze, ma non la certezza di valere al di là delle abilità e competenze, di valere per quello che si è, di valere per il fatto di essere figli, creature dell’uomo, creature di Dio. Lasciarsi finalmente amare senza la stupida presunzione di potercela fare da noi, di bastare a noi stessi, e imparando ad amare sul serio senza essere troppo preoccupati della nostra bella faccia è la strategia che può guarire la paura, darci la letizia profonda, la certezza gioiosa di valere. E da dove erano partiti un sacco di guai possono ripartire una serie di piacevoli e provvidenziali benedizioni. 19.11.2007 dal ‘Bollettino delle Parrocchie della Valmeduna’
7 thoughts to “La paura primitiva”
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“ … con la certezza di valere al di là delle abilità e competenze, di valere per quello che si è, di valere per il fatto di essere figli, creature dell’uomo, creature di Dio.”
Parole che sono entrate prepotentemente nelle mie ossa, mi sembra parlino di me e della mia vita.
Proprio quando ti sembra di toccare il fondo, quando molte delle tue certezze crollano, solo in quel momento ricevi la grazia di sperimentare la viscerale nostalgia di Dio. Solo in quel momento comprendi veramente per quanto tempo sei sopravvissuto confidando in apparenti verità. Spesso legate ad un modalità di intendere la fede oramai superata, velatamente farisea, magari eccessivamente idealista. Intuisci che per anni la tensione vitale è stata orientata (con alti e bassi), alla ricerca di una fede alta, pura, luminosa e celeste, legata probabilmente più al buoncostume che all’umiltà.
Ed è proprio la scoperta dell’umiltà, quella vera, quella che ti scaraventa improvvisamente nudo davanti a Dio, quell’umiltà, ha la forza di indirizzare il tuo sguardo verso il basso per permetterti di accettarti come peccatore. Ed è proprio in questo preciso istante che realizzi e sperimenti l’amore misericordioso di Dio, che sa accogliere le tue passioni, le tue solitudini e i tuoi difetti. In questo istante sei in comunione profonda con Lui, nel preciso momento in cui tu gli permetti di entrare e di scavare nel tuo corpo terreno.
Ebbene questa è l’umiltà che ti autorizza a compiere quel salto nel buco nero della terra, ti consente di trovare il coraggio di rotolarti nel fango, nell’humus appunto. Humilitas e humus. Ti senti finalmente parte di questo terriccio disgregato, disintegrato che allo stesso tempo sa di essere fecondo, aperto all’accoglienza e alla vita.
Dove si trovava il tesoro nascosto? Se non nella stessa terra? Allora ci è richiesto di sporcarci le mani e non solo.
“Questo tesoro lo portiamo in vasi d’argilla”. La luce, la verità, la fede stessa non la si trova più osservando il cielo ma guardando dentro la feconda terra, la madre terra, il nostro essere terra.
Sono qui dentro che arranco, il mio punto di vista si è abbassato notevolmente, la mia fecondità dov’è? Ho affondato le mani nell’humus, ho realizzato il mio vaso d’argilla. Dov’è il mio tesoro?
Anch’io mi porto dentro fin da quand’ero piccola la paura di non valere. Ricordo che già la maestra delle elementari mi definì “bambina egocentrica, bisognosa di attirare su di sé l’attenzione”. Forse è vero che è mal comune, ma ricordo anche di compagni di scuola più sereni di me, che non desideravano brillare a tutti i costi dentro al gruppo per personalità e carattere e che, senza infamia e senza lode, vivevano con leggerezza la loro fanciullezza, senza smania di ricevere complimenti e continui attestati di stima. Sicuramente il mio equilibrio è stato reso un po’ traballante anche da vicissitudini personali, che hanno amplificato il mio bisogno di esser certa di valere, di contare per gli altri. Una vera e propria fame. Fame di amore, fame di attenzioni, fame di considerazione, fame di piacere, fame di cibo… quest’ultima mi ha creato non pochi problemi di obesità.
Anch’io, come Narciso, mi sono data molto da fare nei miei rapporti di amicizia, nell’ambiente di lavoro, nella vita sociale, nelle relazioni in genere… per ricevere consensi, applausi, gratificazioni, nel tentativo di placare questa fame. Non posso dire che la mia vita non sia stata intensa. Mi sono spesa molto, considerandolo l’unico mezzo per ricevere l’aria necessaria per respirare, l’energia per andare avanti, la mia dose di amore, senza la quale non avrei saputo trovare la gioia di vivere.
Eppure, nel momento in cui sono stata colpita dalla sofferenza, dal dolore, dal lutto, e così tanto amore mi è venuto a mancare, mi sono stupita della forza, della fiducia, della speranza trovate in me, che mi hanno sostenuta. Io non ho intravisto un destino maledetto che colpiva me, ma la precarietà della nostra vita, il nostro essere ‘carne’, la necessità di trovare una risposta che andasse oltre a quello che siamo e viviamo. Non ho perduto l’equilibrio, non ho mai pensato che Dio ce l’avesse con me. Dio non punisce, ma ama e sostiene. Ora che mi sono messa in ascolto della Sua Parola, ora che ho iniziato il mio cammino, mi sono resa conto, che quanto più mi avvicino alla Verità, tanto più riesco ad allontanare le zavorre del dolore, trovando nella Fede una risposta e quel ‘senso’ a tutto, tanto cercato.
Nel momento in cui apriamo il cuore a questa Verità, tutto ciò che può fare male in questa vita, trova ‘senso’ grazie al Suo Amore. Ed è finalmente appagante lasciarsi amare da Lui. Da quel Dio, che ora, per me è consolazione…
Noooo, quante volte l’ho gridato questo ‘no’ per la paura di non valere; Non tanto nella società, quanto in famiglia. Quante volte l’ho gridato questo ‘no’, soprattutto quando, da ragazzina adolescente e non solo, ero solita salire per sentieri impervi di alta montagna. La fatica, con la quale arrivavo in cima la vetta, non calmava quel desiderio che avevo dentro di gridare liberamente quello stato d’animo. L’ho gridavo piangendo quel terribile ‘no’ accompagnato al ‘perchè’ non valgo. Solo la bellezza di quello che vedevo lassù, mi rigenerava l’animo. Sapevo che Dio mi ascoltava e mi accompagnava al ritorno. So che mi ascoltava perchè scendevo leggera, contenta, consapevole che ci teneva a me e con la certezza che valevo perchè sua creatura.
Quando poi rientravo nel quotidiano famigliare, a capofitto precipitavo in quella timidezza che non si può spiegare, quella paura che ti costruisci per difenderti ma che ti distrugge facendoti diventare fragile e indifesa. Il ‘sei timida, non parli, non vali niente’ detto per anni, ti schiaccia a terra come un macigno.
Ancora faticosamente lotto contro questa paura, faticosamente cerco di superare le situazioni, di vincerle, di combatterle: arrossendo, impallidendo, cercando di calmare anche quel cuore che batte a mille. Faticoso? Si, faticoso. Ti disturba quel tarlo che per anni ha fatto breccia dentro di te e contro il quale lotti duramente.
Solo la certezza gioiosa di valere davanti agli occhi di Dio, mi da’ sollievo.
Gioisco e mi rallegro per la ‘tua storia di salvezza’.
Grande!
E santa, quell’umilta’ che ti autorizza a compiere un salto nel buco nero della terra, come descrive il nostro amico turchese.
L’AMICO RITROVATO
Non si tratta del libro di Fred Uhlman ma di Dio, un amico prezioso, leale ed insostituibile che ho ritrovato di recente.
E’ stata una ricerca inconscia, silenziosa e graduale, iniziata alcuni anni fa.
Lui era li, come un Corteggiatore perseverante e discreto che non chiede nulla in cambio ma spera che tu ti accorga del Suo Amore.
La mia esistenza non è stata segnata da gravi tragedie, ma da un perenne senso di inadeguatezza – che ha raggiunto l’apice quando avevo 32 anni – che mi fustigava spingendomi a pensare che gli altri erano migliori di me e avevano quel “valore aggiunto” che io non possedevo.
Qualunque cosa facessi o pensassi non era ok e non vedevo via d’uscita.
Avvolta da questo frustrante disagio non possedevo la lucidità e la serenità necessarie per guardarmi dentro e scoprire il valore della mia persona e i miei lati positivi.
Eppure, senza renderme conto, cercavo Lui.
Lo cercavo nei libri: nelle Confessioni di S. Agostino, nel Paradiso di Dante o nella fiaba Il Gigante egoista di Oscar Wilde; lo cercavo andando a messa, seppure in modo discontinuo e talvolta distratto, ma tutto questo non bastava……
Nel 2007 spinta dalla passione per la storia dell’arte, trascorsi un paio di giorni a Orvieto. Visitai il Duomo; all’interno della Cappella di S. Brizio ammirai gli affreschi del Beato Angelico e di Luca Signorelli e nella Cappella del Corporale, osservai i dipinti di Ugolino di Prete Ilario.
Ma non solo la pittura suscitò il mio interesse.
Dentro la Cappella del Corporale, mi commossi nel rileggere la storia del Miracolo di Bolsena e nel vedere il Corporale macchiato dalle gocce di sangue, ormai sbiadite, che Dio aveva fatto stillare dell’Ostia, per placare il dubbio sulla presenza di Cristo nell’ Eucaristica, che assalì il sacerdote Pietro da Praga durante la celebrazione della messa sulla tomba di S. Cristina.
Mi ricordai che dal Miracolo di Bolsena è nata la festività del Corpus Domini.
Emozionata e coinvolta dall’esperienza che stavo vivendo, ho condiviso subito i sentimenti che provavo con le persone più care.
Nel mio racconto, ripetitivo ed entusiasta, al punto da farmi sembrare un fiume in piena, c’erà già Dio che bussava alla mia porta e voleva farsi riconoscere, ma non ero ancora in grado di capirlo.
In questi anni, pur continuando ad andare a messa, percepivo che mi mancava qualche cosa.
Sentivo che dovevo conoscere meglio la Bibbia e, spinta da questo bisogno profondo, in primavera ho iniziato a seguire la Lectio Divina, esperienza di grande spiritualità e confronto con gli altri, che mi sta facendo riflettere e crescere molto sul piano personale.
Comprendo che le Sacre Scritture non sono testi passati di moda, meritevoli di ammuffire negli scaffali delle biblioteche o peggio ancora, materiale di esclusivo monopolio di preti, suore, monaci e chierichetti, ma sono libri vivi, che parlano al cuore, allo spirito, alla coscienza e alla mente delle persone e sono “senza tempo” perchè ti portano a riflettere e ad applicare su di te e sugli altri quanto hai sentito e appreso dalla loro lettura.
Nel corso di uno degli incontri settimanali dedicati alla Lectio sono stati letti e commentati i versetti tratti dal Vangelo di Giovanni “Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo”. “Perchè la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda”.
Nei giorni successivi ho meditato a lungo su queste parole e, incredibilmente, proprio durante la messa del Corpus Domini, dopo secoli che non mi comunicavo, ho sentito il desiderio di fare la Comunione.
Non dimenticherò mai quel giorno, perchè risentire Cristo dentro di me è stata fonte di grande gioia e commozione.
E’ come se, dopo un lungo periodo di siccità, la mia anima sia stata rigenerata da una grande sorgente d’acqua, perchè ho ritrovato nell’intimo quella scintilla divina rimasta assopita per troppo tempo.
Riscoprirmi amata da Dio mi sta facendo sentire più serena, mi voglio più bene, percepisco gli altri in modo diverso e mi vergogno di meno dei miei difetti, perchè mi sento preziosa per il fatto di essere nata e di essere una persona.
Adesso so che Lui ci sarà sempre.
Quando vivrò momenti di fragilità, disperazione, delusione, indecisione o apatia, mi indignerò, piangero e brontolerò, prendendomela anche con Lui, ma li affronterò in modo diverso, con il cuore più aperto alla speranza e con la consapevolezza di poterli superare.
Quando mi capiteranno momenti di felicità e gioia, me li gusterò in pieno, condividendoli con Lui e con le persone che amo.
Grazie Don Fabrizio e grazie Giuseppe perchè siete stati miei complici in questa Meravigliosa Riscoperta.
La ‘sua storia di salvezza’ mi ha commossa già la prima volta che l’ho letta sul Bollettino Parrocchiale, in occasione del suo ingresso qui a Prata, ed anche ora mi fa lo stesso effetto. Raccontandoci la sua storia, lei ci ha donato una parte di sè, ci ha donato un pezzo del suo cuore, la cosa più preziosa che ha, e questo ha fatto nascere in me un profondo senso di gratitudine nei suoi confronti.
Il suo racconto ha avuto un effetto liberatorio anche su di me, che mi porto dietro dei residui di timidezza da quand’ero bambina.
La sua storia è la riprova che Dio non si stanca mai di cercarci e si fa trovare nei momenti e nelle situazioni più impensate.
Per ciascuno di noi Dio tesse una personale trama di salvezza, sempre diversa, sempre unica, come unico e irripetibile è ognuno di noi.
La vera Fede nasce dall’umiltà. Più grande sarà la nostra umiltà, più ci renderemo conto del nostro valore agli occhi di Dio, e più crescerà la nostra Fede.
Mi è rimasta impressa nella mente una frase che ho sentito nel film ‘Moulin Rouge’:”Nella vita bisogna imparare ad amare e lasciarsi amare”. Credo che questa sia la definizione più giusta dell’umiltà. Lasciarsi avvolgere in un caldo abbraccio dall’amore di Dio, ma anche saper riconoscere, accettare, apprezzare e gioire dell’affetto, la simpatia, la stima, che ci vengono offerti dalgi altri.
La mia prima maestra di umiltà è stata mia madre, sia con le parole che con l’esempio. Ora che è anziana, nonostante la mente vacilli, praticamente è rimasta la sua unica ragione di vita. Per lei anche solo porgerle un bicchiere d’acqua è motivo di gioia e di gratitudine. All’inizio non capivo, ero quasi infastidita da questo suo atteggiamento, poi ho capito che dovevo semplicemente lasciarmi amare, e così la sua gioia è diventata anche la mia. Lo considero quindi un privilegio poterla accudire e seguire di persona, aiutata da mio marito e dai miei figli.
“Tarlo” mi pare il termine azzeccato per definire questa paura di non valere che tormenta e plasma le nostre personalità.
Si tratta infatti di un animaletto partorito dal nostro orgoglio che bazzica nei meandri più nascosti del nostro IO e che gioca a guardie e ladri con la nostra coscienza.
Per difendermi, la mia strategia istintiva (espressione che è quasi un ossimoro essendo la strategia un’azione solitamente ragionata, razionale) si può catalogare senza dubbio alcuno nella categoria del “timido”, che forse è quella più sofferente (ho visto che anche Donatella ne sa qualcosa;).
Per capirlo cerco di descrivere alcune sensazioni: basta avere addosso lo sguardo di almeno 3 persone (ma se son quelle giuste ne basta una) ed il cervello diventa come le sabbie mobili dove i pensieri annaspano, le parole scappano via per poi tornare regolarmente solo quando ormai è troppo tardi (di solito la notte, quando si rivivono le scene con i discorsi che scorrono come fiumi facendoti passare la notte insonne, rosicando sul “ma perchè non mi sono venuti in mente prima?”).
C’è una canzone che di Luca Carboni “Le persone silenziose” che descrive bene queste sensazioni.
Per non parlare delle infinite volte in cui ci si promette “ok, d’ora in poi sarò più sicuro, più aperto, più socievole..” venendo poi smentiti dalla realtà.
E’ proprio difficile! La ragione non basta, serve ben altro. Qui, nella mia esperienza, entra in scena la fede. In particolare io trovo un particolare conforto e forza nell’immagine del buon Pastore.
Mi vedo infatti come una pecora che spesso ferma il proprio cammino di fronte ad un piccolo rigagnolo d’acqua oltre il quale c’è il Pastore che mi esorta a continuare perchè non c’è alcun pericolo.
Ma la pecora invece no, si irrigidisce, ed accecata dalle proprie egocentriche paure non si muove.
Ma il Pastore è sempre lì che insiste con amore e pazienza (a volte penserà che più che una pecora son un mus!).
Ecco allora la soluzione, che pian piano sto sperimentando: imparare a Conoscere (in senso biblico) il Pastore e la sua Parola, a sentire la Sua presenza, ad abbandonarsi a Lui soffocando il tarlo della primitiva paura.
Voglio quindi imparare ad essere una pecora (pecore che, ironia della sorte, in dialetto sono chiamate “fede”, (squallida battuta)) che sa seguire il suo Pastore e che sa camminare non solo nascosta in mezzo al gregge, ma quando serve anche in prima o in ultima fila.
Con gran piacere, dato il personale invito di Don Fabrizio a postare in questo blog, voglio toccare alcuni argomenti da condividere con voi, degli spunti colti dalle parole della “paura primitiva”.
Vorrei trattare un argomento che tutti noi nel corso della vita abbiamo affrontato, nessuno vi ci si può sottrarre, che esso sia fisiologico, patologico, psicologico, neuropatico, profondo o superficiale ogni uomo ha conosciuto il dolore.
Il dolore penetra la vita in modo trasversale, coinvolgendo tutte le dimensioni della persona, dando luogo ad un’esistenza particolarmente esposta, più fragile e più aperta alle dissonanze, perdendo la sostanziale identità tra sé e il corpo come un corto circuito che ci fa perdere il controllo e ci rende impotenti al suo cospetto.
Non è possibile affrontare questo tema nella sua globalità senza sapere che ci sono dei complessi
meccanismi attraverso i quali siamo in grado di percepire questa particolare esperienza sensoriale.
Il sistema nervoso, in particolare i neuroni che sono la cellula fondamentale del tessuto nervoso, ricevono, conducono e trasmettono informazioni, questi segnali poi elaborati vengono percepiti come dolore, gli impulsi elettrici liberano sostanze e tutto questo dà forma ai meccanismi periferici, ovviamente non è in così poche parole che si può spiegare il nostro corpo, ma tuttavia il dolore non è percepito fino a quando l’informazione non raggiunge in cervello attraverso il midollo spinale, dove diventa esperienza sensoriale ed emozionale.
Il dolore è parte integrante della vita, del percorso educativo e di crescita della persona, psiche e soma (dal greco=corpo) in natura sono un tutto unitario, ciò che aiuta a non farsi prevaricare dal dolore è cogliere che non si è soli a questo mondo, che i legami ci sorreggono, ci fanno crescere e sanano altri legami rotti dalle normali circostanze della vita. Bisogna quindi viverlo come occasione di rigenerazione, di evoluzione della persona, nascita del nuovo che include il vecchio, lo trasforma e lo rigenera.
Il problema più grande che si presenta di fronte al dolore è cadere nel baratro della depressione, immaginiamo la persona nella depressione come in un tunnel, dove tutto è nero e tutto è fermo, dove ci sono cambiamenti fisiologici, del modo di pensare, del comportamento e riportarla verso la luce è un’impresa assai complicata.
Sono interminabili giorni di NON vita, un esistere solo perché il cuore batte ancora, l’aria entra nei polmoni e il sangue scorre, il resto, la mente, l’anima è imprigionata in un nebbioso intercalare di pensieri di morte, di paura, ogni sorta di sentimento esanime impregna a tal punto le giornate e le notti infinite di tristezza. Ogni cosa è uguale all’altra, non c’è più interesse, passioni, ma un gran senso di vuoto e buio che ti avvinghia con catene di disperazione che nemmeno le parole di conforto spazzano e ti aggrappi come un albero in una tempesta, nessuno ti capisce se non l’ha provato e la forza per superare tutto questo la devi SOLO trovare dentro di te. Un giorno farai un piccolo passo in avanti, poi un altro ancora, finché ti lascerai alle spalle il deserto e la sete.
Il dolore interiore e la sofferenza psichica sono si delle esperienze umane universali ma che vengono elaborate e vissute in maniera totalmente individualizzata perché sono fortemente legate alla nostra storia, alla nostra cultura, alla nostra sensibilità.
In certe condizioni psicologiche non si capisce che questa vita che sebbene ogniuno di noi si trova a vivere senza averla scelta, è la cosa più importante che uno ha, è un dono, una cosa bella, ma si pensa ad un imbroglio, un peso, un tormento, tanto da augurarsi che essa finisca, in preda alla disperazione di chi non vede un domani, non vive il presente e non ricorda il passato…
Quindi che siamo “attori o spettatori”, impegniamoci ad accettare la sfida di strappare il dolore alla disperazione e accompagnare il sollievo nell’orizzonte integrato di un segmento di vita riumanizzata