Oggi mi sono imbattuto in alcune immagini di Buddha selezionate da Google. Ricordo con lucidità la guida, preparata e puntuale, di un mio recente viaggio in India. Ci aveva fatto notare che il ritratto reale e originale di questo famosissimo riformatore dell’induismo era quello di un uomo sottile, asciutto, nemmeno lontano parente di certe rappresentazioni grassottelle del famoso ‘illuminato’. Il Buddha obeso quindi era merce per i turisti, per l’immaginario religioso di quanti amano un sacro opulento, fecondo, extralarge. Esiste allora un Buddha iconografico falso, turistico, superficiale, stereotipato. Sono del parere che il cattolico medio si porta in testa un sacco e una sporta di stereotipi, di idee distorte e superficiali. Roba per turisti del sacro appunto, non per cercatori veraci. Uno di questi stereotipi è quello sull’umiltà che nulla ha a che fare con l’umiltà biblica. Qualcosa insomma di sgradevole, a meno che uno non ami le tinte grigiastre. Uno stato dell’anima che rimanda a sottomissione, a timore, a timidezza cronica e antipatica. Oppure ad una sorta di assenza di turbamento e di desiderio dell’anima che si esprime con un sorrisino innaturale sulle labbra, come certi Gesù oleografici così tanto popolari, a conferma dello stereotipo di cui parlavamo. Proviamo a guardare dritto in faccia Lui, il Gesù storico al di là del fatto che si sia o meno credenti. Interessante leggere con attenzione il capitolo 11 di Matteo. Egli esalta i piccoli e gli umili di cuore. Lui stesso indirettamente si presenta come il piccolo e l’umile per eccellenza. Tuttavia non c’è ombra di incoraggiamento al servilismo, alla pusillanimità, alla remissività, al silenzio tipico dell’ultimo della fila. Non loda l’ignoranza e l’imbranataggine. Direi che non predica una calma surreale più vicina al Buddha orientale, dal quale siamo partiti, che hai suoi reali stati d’animo. La sua non è un’umiltà edulcorata, inalterata, eccessivamente beata ed angelica. Immediatamente prima delle sue battute sull’umiltà ci sono delle sferzate violente e spietate sulle città arroganti e quasi inconvertibili, la sua condanna quasi senza appello portata senza freno. E allora dov’è la sua bontà e umiltà? L’umiltà biblica allora è esercizio di un cuore intraprendente, libero, coraggioso e appassionato. E’ il Figlio che decide di obbedire al progetto del Padre, alla verità. E’ colui che mette al centro non il suo ombelico, ma la saggezza, la Torah, il mistero della vita. Questa è umiltà, l’essere relativi ad un Altro, o almeno al bene, a ciò che è giusto e che merita di essere scelto. Una calma troppo eroica, o una mitezza che non conosce fremito dovrebbe insospettirci, altro che essere considerata virtù dell’uomo senza peccato originale. Prima o poi la falsa modestia, l’umiltà insincera viene allo scoperto. Il teatrino non regge e magari ci si scopre risentiti, smaniosi, scontenti, ambiziosi. Oppure ci conduce a svilirci, ad inaridirci per congelamento di energie. Forse a stufarci d’essere umili con modalità da repertorio nostrano, ma lontane dal fascino e dalla bellezza dell’essere autenticamente poveri e piccoli. Ricordo quando ero in piena crisi narcisistica, respingevo con gentilezza al mittente ogni genere di complimento, interpretavo la parte dell’umile, ma segretamente godevo perché mi beccavo altri 5 punti nel sentir bisbigliare: ‘Caspita, che uomo, che prete! Tutto per gli altri, dimentico di sé!’. Capirai! L’umile ha la libertà di lasciarsi amare, anche e soprattutto quanto l’affetto viene gratuitamente al di là dei propri meriti. L’umile gioisce se viene riconosciuta la sua coerenza con il bene. Gli piace che l’attrazione per il bene sia stimata, dimostrando di non girovagare per elemosinare gratificazione in modo sottile, ma di essere contento d’aver fatto un servizio alla verità, che lui ama e alla quale fa la corte… da intraprendente!
3 thoughts to “Partendo da Buddha”
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Tempo fa ho trovato su Famiglia Cristiana una lettera di Don Orione, indicata contro il malumore. Mi è piaciuta così tanto che l’ho ritagliata e appesa bene in vista alla vetrata dell’ufficio dove lavoro. Eccola:
‘Dove c’è umiltà non ci sono contese, c’è compatimento reciproco, c’è l’unione dei cuori, e c’è carità fraterna; e si va avanti contenti, e si lavora contenti, si prova una grande gioia e felicità interiore e spirituale. Tutti i doni celesti e le grazie e i conforti ad andare avanti vengono dalla umiltà; mentre tutti i malumori e le liti nascono dall’amor proprio e dalla superbia, che è una nostra grande miseria morale. Se cento volte fosse domandato qual’è la via per diventare santo, qual’è la via più breve, la più sicura, anzi infallibile, altrettante volte io risponderei la stessa cosa:umiltà, umiltà, umiltà.’
L’umiltà è amore. Amore verso Dio, verso noi stessi, verso il prossimo.
Umiltà significa accettare la Sua volontà, qualunque essa sia, abbandonandosi fiduciosamente tra le Sue braccia.
Per me umiltà ha significato accettare la morte improvvisa del mio primo marito dopo soli 56 giorni di matrimonio ed accettare di portare avanti la gravidanza (ero al secondo mese), con la consapevolezza che la vita che si stava formando dentro di me, era il dono più prezioso che mio marito mi aveva lasciato, ma prima ancora era un Suo dono.
Tre anni dopo ha significato accettare di rimettermi in gioco e ricominciare tutto daccapo con un altro uomo, affrontando e vincendo la paura di un’altra tragedia (quando si è stati scottati con l’acqua calda si ha paura anche della fredda). Ha significato anche accettare di trascorrere due nuove gravidanze, una di seguito all’altra, quasi sempre stesa sul letto o sul divano, con la conseguenza di dover accettare di aver bisogno degli altri. Ha significato dover rinunciare ad accudire personalmente i figli che già avevo, per custodire quello che portavo in grembo.
Più avanti ha significato anche accettare la malattia di mio padre, affetto negli ultimi quattro anni della sua vita, da demenza senile. Questo voleva dire ascoltare pazientemente, con un sorriso, ma senza deriderlo, i suoi discorsi strampalati, frutto delle sue allucinazioni. Ha significato accettare di vederlo regredire fino ad accudirlo ed imboccarlo come un neonato.
Umiltà ha significato anche accettare la malattia di mia sorella, affetta da SLA e morta un anno e mezzo dopo la diagnosi. Ha significato dover accettare di sentirmi del tutto impotente e inadeguata, di fronte a una malattia così grave, ma ciononostante ho cercato di fare del mio meglio per stare vicina a lei e alla sua famiglia.
Umiltà significa saper accettare di non sentirsi compresi, anche nei rapporti più stretti:fra marito e moglie, fra genitori e figli, tra fratelli. Significa quindi saper aspettare pazientemente, mantenedo viva la speranza e la disponibilità al perdono.
Il Sacramento che esalta la bellezza dell’umiltà è la Confessione. Da bambina questo Sacramento mi era stato presentato come un obbligo, se non addirittura un castigo. Mi c è voluto molto tempo per capire il vero significato della Confessione. L’essere umano ha bisogno dell’amore di Dio come un neonato ha bisogno del seno di sua madre, e questo amore ci viene dato, a piene mani, mediante il Suo perdono, nella Confessione. Questo Sacramento è una magnifica opportunità per farsi del bene, per compiere un gesto d’amore verso noi stessi, e purificare e rafforzare il legame con Dio.
Il frutto dell’umiltà è la gratitudine. Qualche giorno fa ho incontrato Casualmente una mia amica che da qualche mese ha subito un importante intervento chirurgico alla testa. Le conseguenze di questo intervento sono rimaste ben visibili sul suo volto. Le chiesi come stava e lei mi rispsoe con il più bel sorriso che le sue condizioni le permettevano, che aveva il cuore pieno di gratitudine. Entrambe commosse, ci abbracciammo. Poi continuò dicendo che si sentiva come una ginestra che si piega ma non si spezza. La ginestra è una pianta che vive nei terreni più aridi ed impervi, dove nessun’altra pianta resiste. Ha i rami morbidi e flessuosi e piegando mollemente il capo sembra voglia fare un inchino al suo (e nostro) Creatore in segno di umiltà, rispetto e gratitudine. E sono stati proprio questi sentimenti
a rendere la mia amica forte e tenace come una ginestra.
Auguro a tutti di diventare delle ginestre.
Scrive C.S.Lewis nel libro ‘il cristianesimo così com’è’ :
“Di fronte a Dio, siamo di fronte a qualcosa che è, sotto ogni riguardo, incommensurabilmente superiore a noi.”… “Finché sei superbo non puoi conoscere Dio. Un uomo superbo guarda tutto e tutti dall’alto in basso, e se guardi in basso non puoi vedere qualcosa che sta sopra di te.”
È da un po’ di tempo che rifletto sul termine ‘umiltà’ e ho cercato nei libri la giusta definizione.
Credo sia la virtù che ci conduce più velocemente a Dio.
Io ho fatto un percorso strano. In passato non ho mai cercato la Fede, non ho mai frequentato l’ambiente ecclesiastico. Ho fatto giusto la Prima Comunione e ho cominciato da subito a diradare le mie frequentazioni. La domenica mattina, anziché andare a Messa, preferivo trovarmi al bar con le amiche. A 15 anni si è più attratti dalle risate e dalle facezie, che dai pensieri profondi. Poi, per coerenza, non ho fatto la Cresima, non mi sono sposata in Chiesa, ma solo in municipio.
Eppure, la vita mi ha riportata proprio davanti a Lui.
Ricordo la prima volta che sono tornata a Messa, dopo molti anni di non frequentazione, ero così poco educata a rapportarmi con Dio, che mi metteva a disagio mettermi ‘a mani aperte’ per recitare il Padre Nostro, quasi mi disturbasse chiedere il Suo ascolto, la Sua Misericordia.
Mancavo di umiltà!
Prima di riuscire ad intravedere la Luce, è stato necessario mettermi in ascolto della Sua Parola con un cuore nuovo e libero da tutte le mie convinzioni, da tutte le mie traballanti verità, dimenticando la visione delle cose e del mondo che avevo, perdendo la presunzione di aver già capito tutto.
Essere umile significa rimettere tutto nelle Sue mani, con totale fiducia, riconoscendo il nostro essere “infinitamente piccoli”.
Ora, sentirmi figlia Sua amata, riconoscere in Lui il Padre, mi rende intraprendente e appassionata. Per niente timida e remissiva, per niente sottomessa e rinunciataria. Tutt’altro! Ho la necessità di comunicare a tutti la mia nuova Verità, di parlare a tutti del mio “tesoro ritrovato”… e poco importa se qualcuno non capisce o non mi riconosce!
Come hai ragione Lucia…
Dobbiamo imparare a godere dell’amore di Dio e degli altri… e la gratitudine che ne scaturisce, ci fa sentire privilegiati.
Grazie Signore, di tutto l’Amore che mi doni!
Care tutte a cari tutti, cosa posso dire ?
Esprimo pur con molto ritardo le miei considerazioni.
Credo che il primo percorso verso l’umiltà sia guardare bene dentro noi stessi e capire chi siamo, cosa desideriamo, se quello che desideriamo possiamo ottenerlo, analizzare come ci relazioniamo con gli altri e con Dio.
Per fare questo è necessario essere assolutamente sinceri e scrollarci di dosso le nostre sovrastrutture e i preconcetti mentali che abbiamo nei confronti di noi stessi, del prossimo e di Dio.
Dobbiamo fare un atto di “confessione” ed un esame di coscienza, liberarci dall’ ipocrisia e dalla paura che ci ingessa e recuperare quella genuinità che ci spinge ad essere persone più autentiche.
In passato pensavo che fidarsi di Dio volesse dire essere sciocchi, puerili, dei poveri illusi e dei bacchettoni. Non volevo diventare così e guardavo con una certa incomprensione e commiserazione le persone che avevano fede. Ero piuttosto presuntuosetta !
Nelle mie conclusioni sbagliavo, perché partivo da un’idea distorta della fede e dell’ avere fiducia in Lui, ovvero credevo che fidarsi di Dio significasse annullare la propria personalità e diventare passiva e fatalista, ma ero proprio fuori strada !
Fidarci di più di Dio e degli altri non significa castrare la propria personalità e diventare creduloni e remissivi. La persona umile non castra se stessa, non ingoia rospi in nome di una falsa bontà o finge di non stare male se qualche cosa l’ha ferita, rinunciando ad esternare il suo dolore. Un atteggiamento del genere porta solo ad aumentare la nostra sofferenza e risentimento col risultato di inasprirci e di compromettere le relazioni con le persone.
Confidare in Dio significa non avere la pretesa di controllare la propria vita al cento per cento. A volte capita che ti trovi in situazioni o fai degli incontri piacevoli o spiacevoli che non avevi preventivato.
“La vita è quello che ti succede mentre sei impegnato a fare altri progetti”. E’ una frase di John Lennon che mi piace e rende l’idea della globalità e imponderabilità dell’esistenza.
Nei momenti difficili non puoi contare solo su te stessa o sugli altri, ma devi fidarti di Dio. Non significa incrociare le braccia e aspettare passivamente che tutto scivoli via…… come fa Budda, ma vuol dire sperare con intelligenza che le vicende si evolvano e credere che anche da una situazione drammatica può nascere qualche cosa di buono.
In che modo Dio agisce in noi e si manifesta nella nostra vita ? Me lo sono chiesta molte volte. Per mia esperienza direi che interviene su di noi mettendo in moto la nostra mente, la nostra volontà, le nostre energie, apre il nostro cuore, dandoci la possibilità di vedere in modo chiaro, con la giusta lucidità le situazioni che viviamo.
Egli si manifesta nella nostra vita, nei rapporti con gli altri (amici, familiari, compagni, colleghi di lavoro). Tutto questo avviene nella quotidianità, in modo graduale e a volte impercettibile. Quante volte ci capitano cose belle e non ce ne accorgiamo perché sono piccole cose, ma non per questo prive di significato ? Cominciare a gioire di questo non è un gesto di umiltà e di gratitudine ?
Prima di riscoprire Dio ero pervasa da una forma di ansia: quando mi imbattevo in una difficoltà o mi capitava qualche cosa che mi faceva soffrire ero smaniosa di risolvere tutto e subito. Adesso accetto di più che le situazioni maturino e si evolvano, ovvero sono più consapevole che c’è “Un tempo per gettare sassi e un tempo per raccoglierli, un tempo per abbracciare e un tempo per astenersi dagli abbracci, un tempo per demolire e un tempo per costruire”.